Ultimamente si sente parlare di Smart Working sempre più spesso, anche da parte di aziende “insospettabili”. Come era prevedibile, attorno alla normativa di recente approvazione si è creata un po’ di confusione, partendo proprio dalla definizione del concetto di Smart Working, per non parlare della sua attuazione pratica.
La recente normativa, che lo battezza “lavoro agile”, lo ha definito come:
Una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato.
Una spiegazione parziale e non esaustiva, ma rappresenta un passo avanti dalla precedente definizione, in cui lo Smart Working veniva considerato “una nuova tipologia contrattuale”.
Gestire i dipendenti è facile, basta usare lo strumento giusto!
Presenze, piani ferie, note spese... e molto altro!
Viene da sé la necessità di fare chiarezza, prima ancora di parlare della sua introduzione in azienda, per partire con il piede giusto o, eventualmente, correggere le eventuali incomprensioni in cui siamo già incappati.
Se vogliamo partire da una definizione, scegliamo quella più completa facendo ricorso alle parole del CIPD (Chartered Institute of Personnel and Development) che, nell’ormai lontano 2008, ha speso queste parole a riguardo:
Lo Smart Working è un approccio all’organizzazione del lavoro che ha l’obiettivo di incrementare l’efficienza e l’efficacia nel raggiungimento dei risultati lavorativi, attraverso una combinazione di flessibilità, autonomia e collaborazione, in parallelo con l’ottimizzazione degli strumenti e degli ambienti lavorativi dei dipendenti.
Se questa definizione risulta difficile da comprendere pienamente, proviamo a “digerirla” facendo luce prima su cosa non è lo Smart Working.
Cosa non è Smart Working
Lo Smart Working non è solamente un rapporto di lavoro subordinato. Certo, la normativa è abbastanza chiara quando parla dello:
“svolgimento della prestazione lavorativa, basata sulla flessibilità di orari e di sede e caratterizzata, principalmente, da un maggiore utilizzo di strumenti informatici e telematici, nonché dell’assenza di una postazione fissa durante i periodi di lavoro svolti anche al di fuori dei locali aziendali”
Il poter lavorare in modo flessibile, sia dal punto di vista di orari, luoghi e di strumenti è solo la punta dell’iceberg, non il punto di arrivo e nemmeno la chiave per ridurre i costi aziendali.
Una condizione fondamentale per poter parlare di Smart Working è l’esistenza di un’azienda. Infatti le modalità di lavoro che lo Smart Working utilizza sono una novità per le aziende, da sempre abituate a controllare i propri dipendenti in ogni loro compito e responsabilità, da quando “timbrano il cartellino” all’ingresso fino a quando compiono la stessa azione per tornare a casa. La flessibilità e l’efficienza di tempi, luoghi e strumenti è la realtà di tantissimi professionisti freelance. Quindi non ha senso definire smart worker un freelance, dato che da sempre è abituato a lavorare in mobilità e con orari flessibili. Lo Smart Working, quindi, richiede la dimensione aziendale perché riguarda le organizzazioni sia profit che no-profit.
Infine, è importante sottolineare che lo Smart Working non è l’evoluzione del telelavoro. Non si tratta semplicemente di lavorare da casa, o lavorare un giorno alla settimana fuori dall’ufficio. Ci sono diverse tipologie di lavoro che possono descrivere la modalità di lavoro di chi lavora abitualmente in mobilità o fuori da quello che può essere considerato un ufficio: home oppure remote working, o ancora agile working, flexible working. Quindi tutte queste modalità di lavoro non sono dei sinonimi di Smart Working.
Dunque, cos’è lo Smart Working?
Abbiamo visto che è un concetto piuttosto complesso che va a mutare il modo di lavorare e collaborare all’interno di un’organizzazione, ma possiamo individuare tre elementi chiave che ne rappresentano i fondamenti.
- Revisione della leadership: il rapporto tra manager e dipendente viene mutato, passando dal controllo alla fiducia;
- Innovazione: vengono scelte delle tecnologie collaborative al posto di sistemi di comunicazione rigidi;
- Lavoro da remoto: gli spazi lavorativi vengono riorganizzati e il lavoro può essere svolto anche al di fuori dei muri dell’ufficio.
Lo Smart Working pone al centro dell’organizzazione la persona, facendo combaciare i suoi obiettivi personali con quelli aziendali. Si cerca di dare più responsabilità al singolo lavoratore, renderlo l’unico proprietario del proprio lavoro, informarlo sui risultati da ottenere e sulle tempistiche, cosciente del lavoro da svolgere in team ma autonomo nel definire le proprie modalità e i propri tempi. Per questo si sente parlare di “dare fiducia”, e non più di controllo sui dipendenti. Viene da sé che questo richiede una profonda ridefinizione dell’organizzazione e dei grossi cambiamenti interni, il tutto finalizzato a valorizzare il singolo lavoratore, per renderlo più coinvolto nel successo aziendale e per dargli la possibilità di bilanciare la sua vita professionale e personale.
Il modo di lavorare e di collaborare è in grado, così, di garantire una maggiore produttività aziendale, perché il lavoratore è soddisfatto delle attività che svolge e del suo lavoro, oltre a essere motivato e coinvolto nel raggiungimento degli obiettivi aziendali.
Nella pratica questo si traduce nel rivedere gli spazi e renderli più vivibili, dare la possibilità di organizzare il proprio lavoro anche in luoghi diversi dall’ufficio, garantire degli strumenti portatili, tecnologie digitali e software collaborativi, e molto altro ancora.
Ora che le idee sono più chiare riconosciamo la difficoltà di identificare in poche parole lo Smart Working, allo stesso modo capiamo che non possiamo limitarci a definirlo una “modalità di lavoro subordinato”. Il lavorare da casa un giorno alla settimana non è Smart Working, se oltre a questo non c’è nessun profondo cambiamento aziendale. Prima di arrivare al lavoro da remoto bisogna imparare a gestire le persone, i progetti, ottimizzare la collaborazione riducendo il numero di email usando delle piattaforme collaborative.
Classe 83. Trevigiano di nascita ma Internettiano d’adozione. Non ho ricordi di casa mia senza un computer. La prima volta che ho messo piede sul web avevo 12 anni, Google ancora non esisteva e ci volevano ...
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